lunedì 1 luglio 2019

Lodi


È stato Paul Eluard a suggerire “che la città lasci a chi è cieco la gioia di errare senza bastone”,   un’indicazione poetica che riassume un po’ il senso compiuto del peregrinare di Paolo Ribolini per i quartieri di Lodi, poi sfociato in un’accurata ed elegante mostra, L'abito della città, e nel relativo catalogo. Una visione molto personale nata, per ammissione dello stesso autore, con l’idea “di mostrare la città e le sue variazioni in un breve momento temporale, appunto tra gli anni 2015 e 2019. Tra cinquant’anni sarà molto diversa da oggi, cambiata la sua pelle e variato, almeno parzialmente il paesaggio. E se il paesaggio è ciò che comprendiamo con l’occhio, mi piace pensare che una piccola testimonianza della Lodi di oggi possa sopravvivere in un corpo unico, come è questa ricerca”. L’attenzione alle geometrie e alle prospettive rivela una città in movimento che si spalanca e si riflette nelle luci e nelle ombre e si mostra con una ricchezza e una varietà sorprendenti.


Paolo Ribolini ci tiene a precisare le origini del lavoro che l’hanno portato a definire  L’abito della città:  “Volevo ritrarre la mia città un determinato periodo storico contemporaneo. Ho cominciato questo lavoro tra febbraio e marzo 2015 con l’idea di fermare la storia di questa città in un periodo di quattro anni. Volevo fissare la città in questo periodo e farne un libro... Perché restasse. Perché il periodo storico è il nostro. La scelta anche della periferia legata al centro storico è dovuta al fatto di voler raccontare la città nel suo insieme in modo olistico, in modo completo. Non volevo dare più importanza al centro storico, alla città costruita durante il Rinascimento, ma anche a tutto quello che si è accumulato intorno dandogli una collocazione geografica precisa, ma nello stesso tempo rappresentando un’evoluzione della città, o un’involuzione, a seconda dei punti di vista”. 


Il primo approccio parte dal basso, dalle strade, dalle piazze, dai vicoli e tende a sovrapporre linee e tempi, in modo spontaneo, come ammette lo stesso Paolo Ribolini: “Dipende dalla mia deformazione professionale, fotografo per il quotidiano di Lodi, Il Cittadino, e sono abituato a girare la città guardando dal basso perché è l’occhio di chi sta passeggiando, di chi sta passando in bicicletta. Anche se poi da lì, ho cercato inquadrature inusuali. Per esempio la foto di copertina è una via molto frequentata e gran parte delle persone la percorre sul marciapiede, ma io l’ho ripresa da un’altra prospettiva. E infatti si nota un muro antico, e dietro ci sono gli edifici più moderni. E quindi questo era un po’ il senso: la trasformazione in sé della città, e se trovi delle situazioni che possono essere anche contrastanti, contraddittorie, allora ci sta”. 


C’è una luce particolare che distingue L’abito della città ed è una componente che sottolinea i contorni degli edifici, li illumina e li trasporta in una tavolozza di colori affascinanti sia che si tratti di strutture monumentali che del parcheggio di un centro commerciale. Sfumature importanti che Paolo Ribolini descrive così: “La luce scolpisce e devo dire che la luce del tramonto aiuta a vedere le cose diversamente, che si tratti della città nuova, del centro storico o delle periferie. Il teatro urbano è il luogo in cui tutti viviamo la nostra vita, e l’abbiamo costruito noi. È il luogo in cui viviamo tutti giorni, spesso senza aver la consapevolezza di ciò che vediamo. E così ognuno dopo aver visto queste foto ha espresso le sue interpretazioni. Qualcuno mi ha detto di aver notato un’aria di malinconia. Qualcuno mi ha detto di aver scoperto che Lodi ha tutti quei palazzi dopo aver visitato la mostra”. 


Spunti sufficienti a ricordare come uno dei pregi segreti che L’abito della città conserva e condivide è la valorizzazione del quotidiano che Paolo Ribolini condensa così: “È il viaggio che fai, è quello che scopri nel tuo percorso. Non sono il fotografo che ha cominciato a sei anni perché il papà gli ha regalato la macchina fotografica. A volte penso persino sia meglio lasciare a casa la macchina fotografica. Sono un osservatore e ho voluto dare un’ idea della trasformazione della città così, come è oggi. È il suo abito, è il nostro habitat, non a caso le due parole hanno la stessa radice”. 


L’abito della città offre una gamma notevole di immagini che comprendono cascine e ferrovie, le architetture di Renzo Piano e le case popolari, i graffiti e gli ornamenti, le fabbriche svuotate e gli alberi impertinenti che si infilano tra uno scatto e l’altro. Una democrazia delle immagini che Paolo Ribolini intende perseguire anche in futuro: “Sarà sempre una città, un’altra città, dove la bellezza delle fondazioni e del centro storico si scontrano con le tangenziali, i capannoni: molto contrasto, però affascinante, perché la bellezza la trovi lì”. Ecco, L’abito della città condensa uno sguardo che lascia il segno, scava dentro la cornice e trova, come avrebbe detto ancora Paul Eluard  “un viaggio, una città e l’eco della mia voce”.

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